venerdì 31 luglio 2009

Da Genova a Roma per chiedere aiuto: ridateci i nostri figli

Quotidiano LIBERAZIONE (28-07-2009) pag.1-pag.4


Da Genova a Roma per chiedere aiuto: ridateci i nostri figli
Marisol e le altre, ecuadoriane
contro i ladri di bambini


Marisol, Consuelo, Elena, Laura e chissà quante altre. Minimo comun denominatore delle loro storie è quello di essere ecuadoriane, di avere quasi sempre mariti italiani e violenti, e di imbattersi in istituzioni sorde, distratte, complici, razziste. Per la burocrazia sono quasi sempre matte e spesso hanno avuto rapporti difficili con le polizie. Ieri in dieci sono scese a Roma, viaggiando di notte, per incatenarsi di fronte al ministero di Giustizia. Come hanno visto fare in tv alla mamma di Denise Pipitone. Ma mica glielo hanno fatto fare, anzi, le hanno confinate in un angolo di piazza Cairoli, lontano dall'ingresso del Guardasigilli. Una delegazione è salita e pochi minuti dopo è scesa. «Vi faremo sapere». Così hanno deciso di andare a Montecitorio a vedere se trovavano orecchie più attente alla commissione Affari sociali. Qualcuna ha con sé album di fotografie e disegni delle creature che hanno perso o rischiano di perdere. Perché in comune hanno anche il fatto di essersi viste togliere i figli, affidati ai padri o ai servizi sociali. Sono la punta di un iceberg. Come loro, solo in Liguria, ci sarebbero centinaia di madri terrorizzate, confuse. A marzo, una come loro s'è barricata con 5 figli nel consolato ecuadoriano di Genova.
Antonini a pagina 4


28/07/2009
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Genova, donne ecuadoriane contro la burocrazia e i mariti italiani
Marisol e le altre
contro i ladri di figli
Checchino Antonini

Marisol ha 40 anni, da undici è a Genova.
Voleva aprire un ristorante, specialità
ecuadoriane, ma il padre di sua
figlia l’ha minacciata. «Guai a te!». Così
adesso Marisol fa le pulizie. Il padre
di sua figlia, pare, voleva la casa dove
abitavano. E voleva la bimba. Il padre
di sua figlia aveva un’altra donna. Un
giorno le piombò in casa con altri uomini
in divisa. Poliziotti. Poliziotti che
scappano quando Marisol chiama i carabinieri.
Poi capita in questura, all’ufficio
passaporti, e riconosce l’altra
donna, in uniforme, che era venuta a
casa sua per dirle che o rinunciava alstalgici,
uno di destra e uno di sinistra.
Ma di provocazione si è trattato: il
consigliere de La Destra di Storace ha
dimostrato la palese volontà di violare
le leggi antifasciste e la Costituzione,
perché ha reiterato e reitera la determinazione
a proseguire nelle “ronde”.
Dall’altra parte di fronte a un reato come
l’apologia del fascismo commesso
dai “rondaioli” - saluti romani (uno
eseguito anche da un maresciallo dei
carabinieri, fuori servizio, ma in forza
a Pisa), slogan inneggianti a quel periodo
– i cittadini sono stati lasciati soli
dalle forze dell’ordine, in primo luogo
dal Prefetto, che non sono intervenuti
per prevenire e bloccare queste
iniziative che erano state preannunziate
e configurano reati contro la Costituzione
e contro le leggi Scelba e
Mancino.
Cosa possono fare i cittadini se non
viene svolta questa azione preventiva
nei confronti di chi sta riorganizzando
il partito fascista? Hanno l’obbligo di
protestare e di mobilitarsi per difendere
la legalità democratica. Le forze dell’ordine
sono ancora preposte alla difesa
delle leggi nate dai valori della
Costituzione antifascista?
Gli organi dello Stato sono palesemente
in affanno nel far rispettare le
norme previste dai nostri codici, in
questo caso come nella lotta alla criminalità.
Serve quindi il nostro intervento
diretto in questa lotta, sia come
sindacati che come forze politiche, come
società civile, che non deve lasciare
a frange minoritarie la difesa della
democrazia, per i pericoli che queste
possono rappresentare, ma deve riappropriarsi
della democrazia in questo
Paese.
La lotta per la democrazia e quella
contro il fascismo e la criminalità sono
inscindibili, come è stato chiaramente
indicato nella nostra Costituzione,
che ha identificato nel fascismo
la più alta forma di criminalità organizzata
mai apparsa, che ha coniugato
interessi criminali, economici e politici
in un unico corpo.
la bambina oppure l’avrebbe fatta rinchiudere
in manicomio. Il padre della
bambina menava Marisol e sua madre
che era venuta dall’Ecuador per darle
una mano. Quando è iniaziata la
“guerra”, Ilaria aveva un anno, ora ne
ha sei. Quando arrivò la carta che spiegava
l’affidamento ai servizi sociali,
Marisol pensò che “servizi sociali” sono
due parole positive. Che magari
c’era qualcuno che avrebbe messo una
buona parola per far tornare la pace.
Invece scoprì che il padre della sua
bambina le aveva sottratto la casa dichiarando
il falso. Era il 17 dicembre
del 2007. Marisol non capisce tanto
accanimento. Sa che «tutti i giorni ci
sono persone che si lasciano». Ammette
l’ingenuità, capisce di essere stata
derubata. Decide di ribellarsi. Ilaria,
intanto, racconta a scuola che il padre
la picchia. La dirigente scolastica dichiara
di non aver mai avuto contatti
con i servizi sociali che, invece,
l’avrebbero dovuta seguire. Semplicemente
non si sono mai fatti sentire.
Eccetto che per allontanare la bambina
dalla scuola dopo la denuncia della
madre.
Cinquecento, novecento, chi lo sa
davvero quante siano le madri ecuadoriane
come Marisol. Minimo comun
denominatore delle loro storie è
quello di avere quasi sempre mariti
italiani e violenti, e di imbattersi in
istituzioni sorde, distratte, complici,
razziste. Per la burocrazia sono quasi
sempre matte e spesso hanno avuto
rapporti difficili con le polizie. Come
ieri, ad esempio, che in dieci sono scese
a Roma, viaggiando di notte, per incatenarsi
di fronte al ministero di Giustizia.
Come hanno visto fare in tv alla
mamma di Denise Pipitone. Ma mica
glielo hanno fatto fare, anzi, le hanno
confinate in un angolo di piazza
Cairoli, lontano dall’ingresso del
Guardasigilli. Una delegazione è salita
e pochi minuti dopo è scesa. «Vi faremo
sapere».
Così hanno deciso di andare a Montecitorio
a vedere se trovavano orecchie
più attente alla commissione Affari sociali.
Qualcuna ha con sé album di fotografie
e disegni delle creature che
hanno perso o rischiano di perdere.
Consuelo ha 41 anni, madre single, e
una lettera che attesta come sia una eccellente
badante di una donna malata
di Alzheimer. Salvatore, il suo bambino,
ha sette anni ma quando era all’asilo
la maestra l’ha bollato come
«maniaco sessuale, pericoloso, che fa
disegni bruttissimi». Consuelo li ha
portati. Rimira quegli alberi, le nuvole,
i semafori, le case e i cuori e i camion
e i soli e proprio non capisce cosa
ci sia di anormale. Racconta di Salvatore
che tornava da scuola con i lividi
e delle maestre che dicevano che era
bugiardo a dire che lo picchiavano. «Si
butta per terra, è aggressivo, è un bambino
bugiardo». Ma Consuelo non se
la beve. L’assistente sociale rivolta la
frittata e dice che sarebbe la madre a
maltrattarlo. Così dal 22 aprile, Salvatore
è affidato a una comunità ma è felice
solo quando può vedere la madre.
A scuola non ha imparato granché ma
forse ce lo portano tardi e lo tengono
separato. Il suo diario è come nuovo.
I rapporti dei servizi sociali dicono che
non collabora e insinuano abusi sessuali.
Mica è facile raccontare una storia
del genere. A chi piacerebbe dire
che il suo uomo è un violento? A Elena
sembrava fosse andata discretamente
con quell’affido condiviso ottenuto
tre anni fa. Suo marito era
troppo violento, una volta le ha rotto
il setto nasale, un’altra le ha puntato la
pistola in faccia. Sono stati sposati sei
anni, a Imperia. Lui è un impresario
edile tra la l’imperiese e Montecarlo.
Ma questo non gli ha impedito di reclamare
all’ex moglie 600 euro al mese
per il mantenimento del figlio. L’ha
sempre minacciata di soffiarle il bambino
quando avrebbe iniziato le scuole
e così è stato. Quando Claudio ha
compiuto sei anni una psicologa l’ha
affidato ai servizi sociali e collocato
nella casa del nonno, dove sta il padre.
Lei lavora a Marassi in una lavanderia,
lo riesce a vedere un paio di volte al
mese. Claudio sta male a Imperia, è
sempre vissuto a Genova e forse suo
padre lo picchia. Così dice il bambino
all’assistente sociale. E se fosse vero c’è
il rischio che venga dato in adozione.
Allora poi una ci diventa davvero matta.
Laura, 28 anni, per dire, non vede
la sua Chiara da più di due anni, da
quando aveva otto mesi. Gliel’hanno
presa quando ne aveva due perché
una perizia diceva che non era idonea
ma immatura. Con suo marito hanno
deciso di ricorrere in appello. Ci sarà
a settembre ma intanto hanno perso le
tracce della creatura. Guarda il cronista
e chiede: «Lei che ne pensa?».
Chissà cos’è accaduto quattro anni fa
tra Marta, 30 anni da 9 ad Alessandria,
e quella «ricca signora di Bordighera
» in casa della quale era badante
il suo ex marito. Oppure chissà cosa è
accaduto tra l’uomo e la ricca donna.
Perché Marta racconta un accanimento
fuori dal comune che l’ha portata a
ricevere una denuncia per maltrattamento
di minore con tanto di carabinieri
e assistenti sociali a piombarle in
casa per portarle via Maria, che ora ha
dieci anni. «Eravamo sereni!», giura.
Per sette mesi non l’ha vista e la bimba
è come se non la riconoscesse. All’inizio
della primavera, suo padre l’ha
portata in Ecuador per sottrarre a Marta
la patria potestà. Lei l’ha denunciato
per rapimento e dice di non aver
mai incontrato qualcuno che l’aiutasse.
Marta, Laura, Elena, Consuelo e Marisol
sembrano la punta di un iceberg.
Come loro, solo in Liguria, ci sarebbero
centinaia di madri terrorizzate, confuse,
senza nemmeno le parole per dire
il dolore. A marzo, una come loro,
s’è barricata con 5 figli nel consolato
ecuadoriano di Genova. La loro è la
comunità migrante più numerosa all’ombra
della Lanterna. «L’obiettivo è
quello di impiantare una vertenza, un
tavolo col ministero per chiarire queste
storie di discriminazione e indifferenza
istituzionali», spiega a Liberazione
Edgar Galiano, segretario del Comitato
Immigrati che accompagna tra
Via Arenula e Montecitorio l’invisibile
corteo di donne.

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